Annika Van Der Meer: «Prima di tutto un medico, poi una vogatrice»

«Voglio ancora vincere una medaglia d’oro, lo voglio davvero tanto», dice Annika Van Der Meer, una delle tante atlete che aveva messo in programma per la scorsa estate di conquistare a Tokyo il podio più alto nella competizione più importante, ma prima di tutto sente di essere un medico.
Così a maggio ha deciso di anteporre la sua missione da medico a quella d’atleta, consacrarsi al prossimo e alla battaglia contro il Covid, lasciando momentaneamente da parte i remi. Il Giappone resta però sullo sfondo.

«Quando la pandemia era al suo culmine, io pensavo: “Voglio solo lavorare”, è semplicemente qualcosa di più grande di essere un’atleta professionista. Per quel che mi riguarda, prima di tutto sono un medico, e solo poi una vogatrice»

Trentaquattro anni, desiderosa di specializzarsi in oncologia e pediatria, Annika si è laureata in medicina a dicembre 2019, programmava di ritirarsi da vogatrice dopo le Paralimpiadi, diventare una dottoressa a tutto tondo, comprare casa…tutti progetti posticipati.

Il passaggio dalle corse in barca alle corsie in ospedale

«È come se l’intera vita fosse andata improvvisamente in pausa, e non ci fosse stato di sportivo quest’anno. Niente obiettivi. Niente gare. Siamo ancora nella fase “Puoi fare quello che vuoi”, il che è buono perché è difficile trovare le motivazioni quando sei al punto “Ok, non so per cosa lo sto facendo”». 

Il 24 marzo, quando i Giochi sono stati ufficialmente posticipati, ha avuto ben chiaro cosa avrebbe voluto fare. Si trovava a un training camp in Spagna. Le misure di distanza sociale erano già state implementate, il che significava che non avrebbe potuto vogare sulla stessa barca con il suo partner Corne de Koning, il tandem che ha dominato negli ultimi anni nel doppio PR2 misto. Dovevano invece vogare in barche singole, col loro coach che urlava le indicazioni mentre seguiva i percorsi in bicicletta. I centri nazionali di allenamento pure stavano chiudendo. Era tutto troppo strano.

«Ho detto al coach: “Non me la sento di vogare. Mi sento invece di andare a lavorare in ospedale”. Così quel giorno non sono salita sulla mia barca, invece son tornata a casa nei Paesi Bassi e ho contattato l’ospedale oncologico pediatrico. Mi avevano già chiesto se volessi dargli una mano, e così gli ho ricontatti e gli ho risposto “Sì”. E solo allora è arrivata la notizia che i Giochi sarebbero stati posticipati»

Costretta alla sedia a rotelle da un incidente, continua a mantenere la forma allenandosi sui suoi apparecchi domestici, o vogava in mare aperto sino alle dune di sabbia poco lontano da casa sua. Nel frattempo ha fatto domanda per vari ospedali e ha partecipato a una sessione di allenamento. È in strada per ogni destinazione che si è prefissa nella vita.

È sempre rimasta molto vicina alla patria comunità medica e si tiene pronta a dare il suo contributo anche sebbene «In Olanda non ci sono molti casi di Covid tra i bambini», il ramo sanitario di sua competenza, «o meglio, non più di quanti non riescano a gestire»

«Mi piace come i bambini fronteggiano la malattia e guardano ad essa, specialmente i più giovani. Finché si sentono meglio, loro semplicemente vanno avanti».

Più difficile diventare una dottoressa che un’atleta professionista

Sin da bambina Annika aveva due sogni: diventare un medico e partecipare alle Olimpiadi.  Si è diretta verso il primo sin da quando per Natale a 6 anni si è fatta regalare un libro di anatomia, per il secondo ha preso solo qualche deviazione. Prima era specializzata nello sci alpino, «una disciplina nella quale, come olandese, difficilmente sarei riuscita a conquistarmi un posto ai Giochi. Ma ai tempi avevo ancora speranze», poi proprio mentre lo praticava le è occorso l’incidente che ne ha cambiato la vita. Si è provata a cimentare nello sci alpino paraolimpico, poi nel 2015 si è rivolta al canottaggio.

Con De Koning ha vinto per due volte consecutive il titolo mondiale nel PR2 Mix2x nel biennio 2017-2018, mentre solo nel 2019 si sono arresi alla coppa Lauren Rowles e Laurence Whiteley.

Un percorso arduo da affrontare, ma per sua stessa ammissione non quanto quello che l’ha portato a diventare medico:

 «Ho dovuto fronteggiare molti più ostacoli che per diventare un’atleta professionista. Ho preso la mia laurea di primo livello, e quello non si era rivelato un problema perché stavo principalmente a scuola e seguivo le lezioni. Quando ho incominciato il tirocinio, tu hai rotazioni e specializzazioni. Il reparto chirurgico avrebbe dovuto essere la mia seconda rotazione, ma loro dissero: “No, non puoi venire da noi”. E se non puoi andare, non puoi passare. E se non passi, non ti laurei. Questo mi fece impazzire di rabbia»

Ci volle un po’, passare attraverso un bel po’ di burocrazia per convincere il reparto che nonostante la sedia a rotelle avrebbe potuto fare tutto quelle le era richiesto per la rotazione per apprendere della chirurgia. E in ogni caso non voleva fare il chirurgo. Voleva lavorare coi bambini in oncologia.

«Li ho convinti che avrei potuto riuscirci e ho finito per chiudere con una valutazione di 8 su 10. Ho imparato tutto quello che avrei dovuto dalla specializzazione. Ho dovuto essere creativa».

Ha potuto così finalmente dedicarsi alla cura dei ragazzi: «Ai bambini, piaccio. Gli piace spingermi sulla carrozzina. Mi vedono e mi chiedono: “Oh, perché se su una carrozzina?» e io gli dico, “Beh, praticamente le mie gambe non funzionano”, e loro: “Ok”. E questo è tutto»

Il grande messaggio per loro? «Più che vincere medaglie, è importante fare del tuo meglio e raggiungere i tuoi sogni. Se hai una disabilità, non dovresti accettarla “con facilità”. Dovresti chiederti, c’è un altro modo in cui posso farlo?».

(con il contributo di Federico Burlando)

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