
Vorrei parlarvi, cari lettori, dei primi giorni di raduno a Piediluco e dei primi spostamenti coppia-punta avvenuti all’interno della Nazionale, della situazione del settore femminile ma tutto questo, alle 18:30, orario di ricezione del messaggio inviatomi da Alessandra Derme, viene in secondo piano. Si, perché questa è una storia di amore e sofferenza legata a filo doppio con il Canottaggio, nata da un problema di salute e poi, dopo varie vicissitudini (che in quest’articolo Alessandra racconta), sfociata in un controllo anti-doping dall’esito positivo e nel conseguente travaglio di due anni difficilissimi. Un’assoluzione e una condanna, prima del ritrovamento delle vere amicizie, della famiglia e soprattutto della fiducia in se stessa, importante per poter raccontare oggi la propria vicenda “con la speranza che non possa accadere a nessun’altra persona”. Mettersi in discussione ancora una volta potrebbe portarla a rivivere l’incubo per la seconda volta ma Alessandra, ragazza padovana di quasi 24 anni, non ha problemi ed anzi parlarne al mondo remiero, allo scopo di lanciare un forte messaggio a proposito dell’importanza della prevenzione e della conoscenza dei regolamenti anti-doping, sembra un vero e proprio atto di liberazione . “Caro Marco, posso rubarti 5 minuti del tuo tempo?”. Iniziamo da qui…
Certo, Alessandra! Dimmi pure…
“E’ un pomeriggio uggioso e stanca dal lavoro ho deciso di mettermi al computer per combattere la noia. Come nel film “Wanted” in cui un impiegato sfigato cerca assiduamente il proprio nome su Google senza mai trovare risultati, incuriosita, ebbene sì lo ammetto, ci ho provato anche io, ma non mi sarei mai immaginata di trovare ciò che ho letto. “Alessandra Derme (Fic) positiva al doping”, “Squalifica per l’ex Cafoscarina” e così via. Insomma, sono stata sommersa da una vagonata di brutti ricordi”.
A volte condividerli aiuta a smaltirne il cattivo gusto.
“Non sono qui a scriverti per smentire ciò che è stato scritto, ma vorrei portare solo un po’ di chiarezza e denunciare ciò che mi è successo, con la speranza che non possa accadere a nessun’altra persona”.
Mi sembra una buona idea. Da dove partiamo?
“Tutto ha inizio nel 2013, caso strano, penserete ironicamente voi, che sia l’anno in cui ho vinto il titolo Under 23 in doppio e ho avuto la soddisfazione di esser convocata inizialmente per il mondiale di Linz ed, in seguito, per le prove per Chungju. Da neo peso leggero era stato un anno impeccabile e, sebbene con fatica, ero riuscita sempre a raggiungere il giusto peso della bilancia ad ogni gara, sudando più del dovuto e spesso non mangiando a sufficienza, ma per me era il giusto prezzo da pagare per poter raggiungere il mio più grande obbiettivo: disputare un Mondiale. Fatta la selezione, che purtroppo non è andata come si sperava, ci siamo dovute mettere in gioco per poterci guadagnare il posto sul quattro. Test, prove in barca, allenamenti estenuanti sotto il caldo, litigi, pianti ma alla fine ce l’abbiamo fatta”.
E poi?
“Purtroppo però il mio fisico ha deciso di abbandonarmi pochi giorni prima delle batterie. Io, che fino a quel momento ero sempre riuscita a tenere il peso, anzi, riuscendo addirittura a starne al di sotto, avevo iniziato ad aumentare a dismisura senza motivo. Da quel lunedì del viaggio verso Linz è iniziata la mia tortura. Prendevo peso a vista d’occhio: 0,5kg-1kg-2kg. Senza mangiare né bere. Qualcosa stava succedendo ma non riuscivo a capacitarmene. Per fortuna le mie compagne di barca mi hanno aiutato perché altrimenti non so cosa sarebbe successo e di non fare la gara per colpa mia sarebbe stata una grandissima delusione. Finiscono le gare e la domenica mi viene riferito che l’indomani non sarei tornata a Padova ma avrei preso un aereo per andare a Piediluco per fare delle prove per il mondiale in Corea del Sud”.
Cosa succede, quindi?
“Il panico, perché ovviamente sapevo che non sarei stata in peso. Tutti si concedono una bella abbuffata dopo le gare ma la mia non poteva giustificare quell’assurdo aumento di peso che avevo avuto. Arriviamo a Piediluco ed il mio malessere continua ad aumentare. Non riuscivo ad urinare, avevo costanti giramenti di testa e per di più mi si era presentato un enorme sfogo sull’addome. Nessuno riusciva a capire cosa avessi, ed esasperata chiesi al mio Direttore Tecnico di farmi tornare a casa”.
Fermarsi e riconoscere di avere un problema è un atto di coraggio.
“Era meglio così. Da quel giorno ho passato mesi e mesi a fare analisi per capire quale fosse il mio problema che poi risultò essere un edema renale causato da eccessivo sovraccarico di tensione e stress a cui avevo sottoposto il mio fisico. Oltre ovviamente alle errate abitudini alimentari che erano ormai diventate quasi di routine. L’endocrinologo che mi seguì disse che non c’era una cura, soltanto il tempo avrebbe potuto riportare il mio fisico a delle condizioni “normali”. Durante la mia convalescenza mi seguì un medico specializzato in scienze dell’alimentazione, di cui non voglio fare il nome, che preoccupato della mia condizione iniziò a cercare una soluzione per alleviare le mie pene”.
Quale strada avete seguito?
“Iniziammo con dei diuretici naturali, cercando di provocare una diuresi, visto che passavo intere giornate senza urinare, ma nulla. Niente sembrava avere effetto. Decidemmo di provare con un farmaco, per vedere la reazione del mio organismo ad esso e me lo prescrisse. Funzionò, eccome se funzionò. Non ci potevo credere. Ritornai a sentirmi meglio ed i miei valori scesero repentinamente. Sembrava fosse tutto tornato alla normalità, ma così non è stato”.
L’edema si riproponeva?
“Si, ogni qualvolta io mettevo sotto forti stress, sia psicologici che fisici, il mio corpo. Il medico, quindi, decise di optare per una cura occasionale, ovvero al bisogno, nel momento in cui ci fosse una ricaduta a livello renale e così feci, fidandomi di lui. Il giorno che vidi il simbolo del doping sulla confezione allarmata gli chiesi perché mi stesse prescrivendo un farmaco considerato doping e gli domandai se non fosse necessario chiedere un’esenzione a fini terapeutici al Coni, visto che le mie numerose analisi e cartelle cliniche confermavano la presenza di una patologia. Mi disse “Se lo prendi quando te lo dico io non serve” e così, ingenuamente, mi fidai. Chi sono io per mettermi al di sopra di una persona più competente di me nel campo? Nessuno. Così lo ascoltai”.
Arriviamo così ai Campionati Italiani Società, al controllo antidoping di Candia.
“A settembre 2014 ebbi una ricaduta e presi una pastiglia a 10 giorni dalla gara, sapendo come mi diceva lui, che il farmaco ha un “Wash out” di due giorni e che quindi sarebbe rimasto nel mio corpo per 48 ore, non di più. Il destino però ha deciso di metterci lo zampino e ai Campionati Italiani di Società a Candia a settembre 2014 venni chiamata all’Antidoping. Mi chiesero i farmaci assunti nella settimana della gara e io, non avendolo preso negli ultimi 7 giorni, ma ben dieci giorni prima, non lo dichiarai. Ovviamente potete solo immaginare la mia reazione quando, meno di un mese dopo, venni chiamata dal Coni per positività. Da quel giorno ha inizio la mia più grande disavventura”.
Chiamasti il tuo medico?
“Si, lui prontamente rispose “Non è possibile!” inizialmente e poi “Ecco, vedi, questa è la conferma che i tuoi reni non funzionano perché non sei riuscita a smaltirlo”. Inutile dirvi che quella fu l’ultima volta che lo chiamai. Grazie tante per avermi detto una cosa che sapevo già! A ottobre 2014 iniziò la mia crociata verso Roma per portare tutte le mie analisi cliniche e fare la mia deposizione. Poco tempo dopo fui imputata non per fini di doping ma per “negligenza sportiva”, poiché una atleta del mio livello non si potrebbe permettere certe superficialità, e viene proposta una condanna a mio carico con la pena di un anno di squalifica. Ebbene sì, un anno. Lì ha iniziato a crollarmi tutto, mi ero fidata di una persona competente, o che almeno io credevo tale, ed ero finita in quell’orribile situazione. Perché non avevo chiesto di mia volontà l’esenzione? Perché io non ero medico e non avevo preso alcuna iniziativa”.
Un calvario senza fine. Dentro di te, in quel periodo, cosa provavi?
“Tutti i miei sacrifici, tutte le cose che avevo fatto per il mio amatissimo sport in quel momento iniziavano a sembrarmi vane, completamente perse. A marzo 2015 tornai a Roma per l’udienza con il TNA per la deposizione davanti ai giudici. Assoluzione. Non mi sembrava vero, ma 30 giorni dopo mi arrivò una mail in cui mi vennero esposte le motivazioni della mia assoluzione ed il trentunesimo giorno un’altra mail con richiesta di tornare in tribunale poiché la Procura Antidoping aveva fatto ricorso affinchè mi venisse dato un anno di squalifica. Non ci potevo credere. La mia prima reazione fu di piangere, ero completamente logorata dalla situazione. A maggio mi presentao al TNA della seconda sezione, al quale rifaccio la mia deposizione. “Datemi quello che mi dovete dare, ma finiamo questo calvario vi prego”. Queste sono le mie ultime parole al tribunale”.
Quattro mesi di squalifica.
“Ero esasperata, il pensiero di tornare un’altra volta in quel posto mi faceva venire la nausea. Venni condannata a 4 mesi di squalifica per “negligenza e cattiva informazione”. Non per doping. Ovviamente tutti gli articoli che sono stati scritti sulla faccenda non hanno mai smentito la cosa ed hanno sempre parlato di doping. In tutto quel periodo, ho lasciato una delle cose migliori della mia vita: lo sport. Ho avuto un rifiuto totale per qualsiasi sua forma, mi sentivo ripudiata dall’unica cosa che mi sembrava di riuscire a fare bene”.
Ora che il peggio è alle spalle, ora che due anni di sofferenza possono definirsi archiviati, qualche insegnamento rimane?
“Nel contempo ho capito che la vita è fatta di tante altre cose, quali sono le vere amicizie e che la famiglia è uno dei beni più importanti. Purtroppo però ho capito tutto a mie spese, a causa di una “mala informazione” che avevo e che molte altre persone probabilmente hanno”.

Cosa dici a vogatori e vogatrici di tutta Italia affinché non incappino nella tua stessa situazione?
“Non importa l’età che avete, non fate affidamento sugli altri, non aspettate di sbattere la testa contro un muro prima di dover essere costretti ad imparare le cose. Se avete un po’ di tempo libero, lasciate da parte il telefono, la Play Station e anche se arrivate in ritardi di cinque minuti all’allenamento, fidatevi, non sarà così grave; cercate su Google codice Wada e normative antidoping, leggetelo e tenetelo bene a mente per qualsiasi situazione futura. In cuor mio spero non ne abbiate bisogno, ma ho capito che è molto meglio prevenire piuttosto che curare. Non fate il mio stesso errore, non perdete per la strada voi stessi e ciò che amate, informatevi”.
Cara Alessandra, “dura lex, sed lex” si dice, anche se alle volte la legge sembra possa generare ingiustizia (e alle volte anche lo fa), ma le regole condivise vanno accettate come pure l’eventuale giudizio, ed è quello che dalle tue parole si capisce che tu hai fatto. La battaglia contro il doping è troppo importante, e gli atleti ne devono essere consapevoli.
Ma quello che scrivi alla fine è l’essenza della tua esperienza, cioè la necessità di informarsi sempre e direttamente, di quali siano le “regole del gioco”.
Hai fatto buona cosa, assieme a Marco, nel divulgare la tua storia.