Cosa significa una finale olimpica nel quattro senza? Lo chiediamo a chi, a Londra 2012, l’ha raccontata per Sky Sport: l’enciclopedico Nicola Roggero, telecronista della Premier League. Ho avuto il grande piacere di collaborare con Nicola sia come responsabile dell’Ufficio Stampa della FIC, sia (per quattro giorni) come opinionista. Sin dal primo incontro, avvenuto in un ristorante “a strapiombo” sul mare ad Albenga, mi sono trovato di fronte un uomo profondamente innamorato dello sport, quello sano ed autentico come il nostro canottaggio, e delle storie in esso contenute. Non è stato difficile parlare subito la stessa lingua e Nick, dopo le Olimpiadi, si è talmente affezionato al nostro sport da voler provare le emozioni del sentir scorrere una barca, la sua, sulle acque del suo Po. Vi invito a legger quest’articolo, ricco di particolari sui migliori canottieri del mondo, ed a ritornare, con la mente e con le emozioni, alla mattina del 4 agosto 2012.

Si era voltato a dieci secondi dalla partenza. Quando la concentrazione toglie il pensiero e l’adrenalina fa vibrare ogni muscolo. Quando in gioco, di lì ai prossimi 2000 metri, c’era la medaglia d’oro olimpica. Quando tutto dovrebbe fare un canottiere, salvo voltarsi. Invece lui, Andrew Triggs-Hodge, capovoga del quattro senza britannico, aveva fatto proprio questo: si era voltato e aveva detto qualcosa ai suoi tre compagni. Il canottaggio non è la Formula 1 (per fortuna, è molto più umano) che registra le comunicazioni e non è neppure il calcio (per fortuna, è molto più pulito) che decifra pure i labiali. Nessuno saprà mai cosa abbia detto Triggs-Hodge. Ma tutti hanno intuito il senso. Qualcosa tipo: “Scordatevi il ritmo gara, oggi quello della partenza lo terremo sino al traguardo”. O forse, meno prosaicamente: “Da qui in avanti non si faranno prigionieri”.

Si era voltato indietro Triggs-Hodge, e chissà se i suoi tre compagni avevano invece guardato a destra. Due acque più in la c’erano i quattro australiani. Soprattutto uno, quello al carrello 3. Non un canottiere, un mito. Il nome, Drew Ginn, veloce come una palata in acqua. Nel quattro senza, era già stato oro ai Giochi di Atlanta, poi ancora olimpionico nel due senza sia ad Atene che a Pechino. E cinque volte campione del mondo. Il destino gli aveva impedito il trionfo proprio nell’Olimpiade di casa, quando un guaio alla schiena sembrò costringerlo al ritiro. Era tornato proprio per battere gli inglesi. E non due inglesi qualunque: Matthew Pinsent e James Cracknell si erano dovuti inchinare all’Idroscalo di Milano, Mondiali 2003, a Drew accoppiato a James Tomkins. Nove anni dopo i sudditi di Sua Maestà se lo ritrovavano di fronte, anzi di lato, e Drew alla vigilia non aveva mancato di lanciare la sfida. “It will be a dragon race”, sarà una gara da duri, traducendo liberamente.
Triggs-Hodge non aveva certo scordato quelle parole, lui che aveva alle spalle due dei compagni con cui vinse l’oro a Pechino. Peter Reed al carrello 3 è il suo fratello di remo. Era in barca con lui nel 2006 quando con l’equipaggio di Oxford vinse una delle più belle edizioni della Boat Race della storia. Era con lui a Pechino e con lui aveva formato un due senza che andò a sbattere contro la “barca illegale”. Non per irregolarità dello scafo, ma per la superiorità dei due che remavano sopra, gli All Blacks Eric Murray e Hamish Bond. Reed, tenente della Marina Reale britannica, era così tornato insieme a Triggs-Hodge sul quattro dove avevano ritrovato il gallese Tom James, uno che come residenza ha scelto Henley, che è come se un tennista vivesse a Wimbledon o un calciatore a Wembley. James, con i due, aveva già vinto l’oro a Pechino e il mondiale a Bled e contro i due, vogando per Cambridge, aveva invece perso la già citata Boat Race del 2006. Oxford, Cambridge: sembra un articolo accademico e invece è canottaggio, lo sport che vanta in assoluto la maggior frequentazione universitaria dei propri praticanti. Anche il prodiere inglese, Alex Gregory (per curiosità nato lo stesso giorno di James, 11 marzo 1984), era laureato alla Reading University, ma in questo senso gli inglesi perdevano il confronto accademico con gli americani.

I quattro yankee, stretti in acqua cinque tra inglesi e australiani, non avevano lo stesso profilo remiero dei rivali, ma in termini accademici non avrebbero sfigurato tra i Nobel premiati a Stoccolma. Tutti laureati, e se Scott Gault era uscito dalla pur blasonata Washington University, gli altri avevano frequentato le prestigiose accademie della Ivy League, il gruppo delle otto università da cui in media arriva un presidente degli Stati Uniti su due. Charlie Cole, il prodiere, non contento della laurea a Yale, ne aveva preso una seconda ad Oxford. Glenn Ochal, al carrello tre, era uscito da Princeton, mentre il capovoga, Henrik Rummel, trasferito con la famiglia da Copenaghen, aveva superato i durissimi corsi di Harvard.
Adesso erano tutti lì, britannici, australiani e americani nel vento di Eton-Dorney che sballottava le barche. La gara e le medaglie erano lì, tra l’acqua sei e la quattro. Con Triggs-Hodge voltato indietro, l’Australia con il monumento Ginn, gli Stati Uniti con i suoi formidabili studenti. Dieci secondi al via, poi 2000 metri, 6 minuti circa in apnea. “Non ci sarà ritmo gara, quello della partenza lo terremo sino all’arrivo”. Aveva ragione Triggs-Hodge. E aveva ragione pure Drew Ginn. Era la Dragon Race. Lo sarebbe stata dalla prima palata in acqua.
Partiti. 24 atleti in acqua, ma è come fossero 12. Tutti gli occhi sulle tre barche dalla 4 alla 6. “Non ci sarà ritmo gara, quello della partenza lo terremo sino all’arrivo”. E infatti gli inglesi vanno subito avanti, con gli australiani che non li mollano. I Wallabies si esaltano con il carisma del loro totem. Insieme a Drew Ginn il più esperto è James Chapman, capovoga di 33 anni. Gli altri sono giovanissimi: Joshua Dunkley Smith, carrello 2, ha 23 anni, William Lockwood, capovoga, 24. Ma vogano con un mito, e sembra basti questo a renderli straordinari. Non perdono un colpo, la prua che si sporge dall’acqua a minacciare gli inglesi. In mezzo gli americani, che provano a tenere una barca sballottata dal maremoto causato da inglesi e australiani che con palate furiose sembrano stiano cercando di scavare l’acqua.
500 metri, stesse posizioni. 1000 metri e ancora non cambia nulla, neppure le distanze. Sempre avanti gli inglesi (tre più il gallese James), a meno di mezza lunghezza gli australiani, a meno di una lunghezza gli americani. Intanto, in sottofondo, crescono i decibel prodotti dagli spettatori situati sulle tribune. Sono 30.000, anche oggi, come ieri e come in tutte le giornate di gara dei Giochi Olimpici di Londra. Qui è nato il canottaggio, qui c’è la sua storia e la storia è fatta anche da chi dalle sette di mattina è in fila per prendere il suo posto ad assistere a un altro pezzo di quella storia. Ci sono bambini che arrivano in bicicletta e con loro genitori, nonni e magari qualche bisnonno che c’era pure nel 1948, le Olimpiadi che ci dissero che si, finalmente l’orrore della guerra era finito e a dirlo fu anche un altro meraviglioso quattro senza, quello azzurro della Motoguzzi di Giuseppe Moioli, Elio Morille, Giovanni Invernizzi e Franco Faggi. Moioli e Faggi sono di nuovo a Londra, favolosi ragazzi che hanno 4 volte 20 anni, anche loro insieme agli altri 30.000 incuranti della pioggia che in media ogni venti minuti ci regala una “shower”(senza acqua dal cielo non saremmo in Inghilterra, che diamine).
500 metri all’arrivo. Le barche viaggiano spinte da muscoli non ancora totalmente intossicati di acido, ma l’impressione visiva è che sia il boato della folla a portarle al traguardo. E’ tifo per la stragrande maggioranza inglese, certo, ma come distinguerlo in acqua? Dodici uomini stanno vogando a ritmo folle da 1500 metri (poco meno di un miglio, direbbe chi non ha voluto saperne del sistema metrico decimale) e, chissà, la loro benzina è proprio il contesto in cui si trovano, esaltante solo a farne parte. La situazione è la stessa, come se un guinzaglio invisibile tenesse insieme le tre barche. Gran Bretagna, poi Australia e in mezzo a loro Stati Uniti. E’ il momento chiave, anche questo previsto da Triggs-Hodge: “Non si fanno prigionieri”, e adesso sono le urla di William Lockwood, capovoga australiano, a suonare la carica. William Lockwood, cioè Guglielmo Boscochiuso, e la chiusura da effettuare e quella sugli inglesi. Cedono? Forse, o forse sono gli australiani che aumentano. Solo la prua, adesso, divide i due equipaggi, e quella australiana ha superato ormai anche Alex Gregory, prodiere inglese.
250 all’arrivo. Boe rosse. Il salvadanaio del canottiere sono i polmoni, le monete a disposizione sono le molecole d’ossigeno ormai completamente saccheggiate. Persino il tenente Peter Reed, una capacità polmonare fuori da ogni parametro medico, si trova impoverito. Non è una gara, è “la” gara, e chissà quale forza misteriosa aiuta a strapazzare di palate un’acqua che ai nostri eroi deve sembrare densa come marmellata. Non hanno mollato gli inglesi, e adesso la prua australiana torna ad essere dietro Gregory. E’ il segnale, quello che aspetta la folla di Eton Dorney: adesso, con i quattro sudditi di Sua Maestà, stanno vogando anche i 30.000 in tribuna. Troppi persino per gli australiani, pure per una leggenda come Drew Ginn. Uno onorato con un privilegio difficile da riscontrare per un contemporaneo: la sua università, quella di Sydney, gli ha intitolato la gara annuale dell’otto, da tempo è la “Drew Ginn Race”. Uno che, nel 2009, si iscrisse al campionato australiano di ciclismo a cronometro e lo vinse, facendo però notare, straordinario esempio di umiltà per un fuoriclasse, che tra gli Under 23 due ragazzi avevano ottenuto un tempo migliore del suo. Non sarebbe arrivato il quarto oro olimpico per Drew Ginn: primi gli inglesi, secondi gli australiani a 1”62, terzi gli splendidi americani a 3”63. Ma le classifiche fanno parte della debolezza degli uomini. Per la storia, quel giorno, ha trionfato il canottaggio.
articolo spettacolare !
Ciao Marco,
questo più che un articolo è una pagina di un libro sul canottaggio, leggerlo fa venire la pelle d’oca e ti invoglia a continuare, per favore continua a scrivere e a dare lezioni sul modo di commentare una gara.
Alessandro
Articolo spettacolare, bravissimo Marco!
vi ringrazio ma l’unico merito da attribuirmi è aver rotto le scatole al bravissimo Nicola Roggero. L’autore dell’articolo è lui, pertanto gli chiederemo più spesso di scrivere per il blog. Tra un numero di Rooney ed un tocco di Gerrard, speriamo trovi il tempo x parlarci ancora di canottaggio 🙂
…………..un’ emozione indescrivibile, ho arbitrato io quella regata e l’ articolo mi ha fatto rivivere in pieno quei momenti……………………..che ricordi !
Complimenti a Nicola Roggero, di cui conservo un caro ricordo anche per il commento al mio “recupero bottiglia ” durante la diretta in mondo visione dei Giochi di Londra.
E un grande ” in bocca al lupo” a Te, Marco, per il lavoro che stai facendo per il nostro canottaggio !
Giuseppe
Ho ancora i brividi che son partiti già all’attacco di quest’articolo..come trovarsi là, nella gara. Sopra e fuori dall acqua! Grazie!
Pazzesca la gara e pazzesco l’articolo! Mi ha fatto venire subito voglia di riguardarmela!
http://m.youtube.com/watch?v=x6wHZNWF7pA&desktop_uri=%2Fwatch%3Fv%3Dx6wHZNWF7pA